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Immagine del redattoreFederica Lampugnani

Scuola: cosa abbiamo imparato?

Molto spesso le riflessioni in merito alla scuola e al sistema scolastico italiano, sono sempre tragicamente le stesse. Parlare di sistema è certamente il campanello d’allarme che evidenzia come non possa essere sistematizzata una realtà viva fatta di bambini, bambine, ragazzi e ragazze. Suona da sempre inadeguata la dicitura “istituzione” per la scuola che, tutto, si può dire tranne che sia istituibile. Qualsiasi bambino infatti ha chiaro che la scuola non piace proprio perché dai grandi è stata pensata. Il pedagogista Francesco Tonucci, ideatore de “La città dei bambini”, saggiamente riporta come sia possibile e civile dare voce proprio ai piccoli stessi. Nel suo caso ha osato o semplicemente ha avuto l’umiltà di lasciare che fossero i bambini ad immaginare come possa essere vivibile una città. E se è adatta a loro, lo è per tutti.

Ritornando alla scuola. Siamo a giugno e l’unico aspetto che sta letteralmente sconvolgendo tutti gli insegnanti, in questo periodo, sono tutta una serie di adempimenti, valutazioni e protocolli da azienda. Appunto la scuola come realtà lavorativa. E’ fin troppo evidente che la scuola crea posti di lavoro e certamente non si può negare che il lavoro sia una dimensione, una vocazione umana, sacrosanta. Il nodo si fa stretto quando un lavoratore entra in una scuola senza averne il sincero e sacro rispetto per il ruolo che avrà. Per chi sarà. Un maestro o una maestra appunto.

La formazione, recentemente, per questi adulti tutti presi da consigli e scrutini, ruota intorno alla continua certificazione di competenze e novità senza ancorarsi alla realtà dei loro studenti. Un altro noto pedagogista, Daniele Novara aveva pubblicato nel 2020 “I bambini sono sempre gli ultimi” confermando l’esiguo spazio alle vere esigenze dei nostri ragazzi.

Purtroppo al contrario di quanto sostengono i pedagogisti e gli educatori, serpeggia una paura diffusa e malvagia oserei dire, nel mondo dell’educazione da troppo tempo. Che i ragazzi ora hanno troppo e si fa troppo per loro e sono sostanzialmente degli ingrati. Questo viene rimasticato dalle notizie, dalla cronaca. Insomma dall’aspetto più viscerale del vivere sociale. A pochi, per fortuna, è chiaro che tutto ciò non corrisponde al vero.

Per esempio. La scuola, per alcuni insegnanti, educatori che ancora mantengono un briciolo di lume pedagogico, è un luogo che costringe e la prova è che lo vivono in prima persona su se stessi. Costringe perché è scandito chiaramente sugli ingranaggi, originariamente, voluti perché preparasse dei sudditi e non delle persone. La scuola italiana infatti è ancora quella nata nel 1859 e se ne vedono tutte le caratteristiche. Gli orari, per esempio, scanditi che non rispettano la naturale fisiologia e l’aspetto più corporeo di bambini e ragazzi. Una scuola prettamente cognitiva e mentale. Dove non esiste una preparazione nella lettura dei bisogni altri (sicurezza, protezione, affetto …) di alunni e studenti.

O ancora: il riposo, il silenzio, gli spazi per non parlare della luce e dell’aria. Quale differenza tra una scuola, un carcere, una caserma? In realtà davvero poche. Strutture piramidali, ordinate, contenitive, disciplinanti, sanzionatrici e spersonalizzanti.

L’animo umano, tuttavia, è capace sempre di risplendere ovunque e siamo certi che esistono eccezioni, particolarità, insegnanti meritevoli e di una bellezza che alcun premio sarebbe sufficiente per sottolinearne il valore unico. E loro sono i nostri fari in questo mare scuro che danneggia, troppo spesso, l’innocenza dei bambini. Soprattutto se ricordiamo che nelle nostre scuola ancora più dimenticati sono tutti i ragazzi e le loro famiglie con disabilità e bisogni particolari.



Sarebbe bello, a volte, che vi fosse un rimedio magico. Per poter consentire un’esperienza scolastica serena, rispettosa e profonda a tutti. Dai piccoli agli adulti che la vivono. Questo perché è difficile sapere le fatiche di tanti studenti, che vivono giugno e la fine della scuola come una liberazione. Non si parla della fatica dello studio e dell’impegno per compiti, verifiche e interrogazioni. Si parla, se ce ne fosse ancora il bisogno, della sofferenza di non essere visti per quello che si sta affrontando. Dagli adolescenti che rimandano questioni più importanti per sapere tutto di latino e matematica. E in un angolo accantonano le sofferenze, le emozioni, gli abbandoni, magari i lutti. In fondo un insegnante è tenuto alla didattica,

penseranno in molti.

Oppure di bambini che faticano ad autoregolarsi per stare tranquilli dentro un banco e per questo ricevono pure castighi e offese verbali. Ovviamente hanno la precedenza le regioni d’Italia e le doppie.

Un adulto si sentirebbe terribilmente frustrato, quasi torturato, se non gli fosse permesso di andare in bagno o di svolgere, ad ogni costo, un compito per il quale non è portato. Di riceverne anche una valutazione umiliante davanti ad altri amici o colleghi. Non lo accetterebbe e, se libero, cambierebbe subito situazione.

Ecco forse la scuola non è libera. Non è nemmeno liberante. La scuola dell’obbligo appunto.

Ma abbiamo imparato qualcosa?

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